LA BIENNALE DI VENEZIA

dall' OTTAVO NUMERO de L'Alternatore

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  1. * gIoRgInA *
     
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    direttamente dalla Rubrica "LA SARACINESCA"

    Passeggiata nell'arte del sogno (e un po' anche dell'incubo).
    di Elena Griggio
    Foto di Enrico Baracco

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    La torre di Babele ha smarrito parte dei suoi mattoni, mattoni fatti a mano da persone che provengono da terre, tradizioni e modi di vedere le cose così lontane, diverse tra loro, che la composizione finale, la quale vede unirsi tutti questi pezzetti così diversi così impossibili da incastrare perfettamente, non poteva che risultare una strana accozzaglia di personalissimi mattoncini.
    I suddetti “mattoncini” smarriti si trovano sparpagliati per Venezia e sono stati accuratamente suddivisi in piani (giusto per mettere un po' d'ordine) o padiglioni, che dir si voglia.
    Eppure qualcuno è sfuggito, e la nostra ricerca si snoda lungo le calli ed i canali della bella Venezia.
    Partiamo dalle opere smarrite, ovvero quelle opere che, come una reale caccia al tesoro, potremmo incontrare un po' per fortuna e un po' per impegno per la città. Del resto ervamo stati avvisati dal titolo stesso della Biennale: “Creatrice di Mondi"; ed eccoci dimostrato come la mostra ha dato origine a nuovi spazi per l’arte attraverso un’esplorazione avvincente di mondi intorno a noi.
    Si chiamano Mona Hatoum, Rebecca Horn e Yoko Ono. Abitano ognuna una “diversa dimora”, rispettivamente la fondazione Querini Stampalia, Bevilacqua La Masa e Palazzetto Tito. E dimostrano con forza e poesia quanto il linguaggio che parte dal corpo delle donne possa essere dirompente, struggente e persino terribile. Il primo pensiero che ci attraversa è quello che la nostra ricerca abbia già dato buoni frutti e ancora di più s'intensificherà tale pensiero dinanzi all'operato dell’artista belga Wim Delvoye con la sua torre di acciaio di fronte al Guggenheim: essa è la guglia di una cattedrale sommersa, non è un miraggio, nemmeno di notte, quando sarà illuminata da luci artificiali.
    Ci renderemo presto conto, raggiungendo, un ponte dopo l'altro, Arsenale e Giardini, che eccezione fatta per i mattoncini raccolti nelle storiche sedi della mostra sarà bene suddividere il resto delle opere “randage” secondo le due definizioni offerteci da Alessandra Mammi (giornalista de L'espresso)

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    • Gli apocalittici
    ovvero quegli artisti che hanno dedicato la loro produttività artistica al sentimento della Paura, ed infondo non è forse la paura uno dei sentimenti che più ci accomuna al mondo? Appare dunque perfetta come tematica, in una mostra che si prefigge di “creare mondi”.
    Alla Paura è dedicato un intero padiglione (Arsenale novissimo) curato dall'artista Jota Castro e culminato nella performance davvero estrema di Tania Bruguera, che parte come una intensa conferenza sul senso del sopravvivere, ma finisce in una roulette russa, con vera pistola puntata alla tempia, vero proiettile, vero choc del pubblico, che alla fine si è pure arrabbiato. Passiamo poi al Lirismo del polacco Krzysztof Wodiczko i cui spettri di immigrati a lavoro ci scuotono profondamente, alla rabbia controllata dei vari artisti romeni che riflettono su un popolo (il loro) colpito dal disprezzo del resto d'Europa, per poi terminare in dolcezza con le fotografie di Chen-Chi-Chang, taiwanese, che ricongiunge idealmente i suoi connazionali immigrati all'estero con le loro famiglie rimaste a casa ad attendere il loro ritorno, di nuovo insieme sotto forma di fotografie accostate. tra loro non più kilometri di dostanza ma solo lo spazio tra due cornici.

    • I collezionisti
    François Pinault tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana ha messo in scena i gioielli di famiglia. E' in questo spazio d'elite che si radunano gli artisti più cari del mondo.
    Rapida. Incontriamo poco più avanti, la risposta del popolo della Biennale a tanto sfarzo: accumuli di giornali, magliette, bicchieri rotti, pezzi di artigianato che l'artista-poeta del Benin, Georges Adéagbo, dissemina qua e là. Si direbbe il giaciglio di un barbone, ma all'improvviso (magari leggendo il titolo) arriva invece dritto al cuore il significato politico e polemico delle sue povere e consapevoli composizioni.
    Collezionista convinto anche il finlandese Jussi Kivi, pompiere mancato, che fin da piccolo raccoglie gadget dei vigili del fuoco. Divenuto artista ha reso produttiva tanta ossessione, ma già siamo ai Giardini.
    E finalmente, direte voi!
    L'opera scandalo della biennale è tra le prime mete di chi mette piede ai giardini. E' una sosta d'obbligo, poiché è considerato il più bel padiglione di tutti i Giardini, firmato Elmgreen &Dragset e premiato con menzione speciale (anche se il Leone d'Oro è andato al maestro Bruce Nauman).
    L'opera che ci si presenta davanti agli occhi è la perfetta ricostruzione allegorica della casa di uno scrittore gay e fervente collezionista di opere e feticci, compresi i costumi da bagno dei suoi amanti appesi in bacheca. Nel frattempo lui (scultura manichino) si è suicidato in piscina,con tanto di pacchetto di sigarette sul fondo della vasca.
    Non si può poi non passare per il Palazzo delle Esposizioni ai Giardini, dove la struttura della ragnatela di una Vedova Nera scannerizzata, ingigantita e ricostruita con corda elastica da Tomas Saraceno, diviene opera d'arte. Oltrepassando l'inquietante eden che ci attende nella sala più buia dello stesso Palazzo, attraversiamo il tunnel degli orrori voluto dal russo Gosha Ostretsov, nel padiglione di famiglia (L'opera, secondo il catalogo, è metafora sui tormenti della creazione. Sarà! Lui sembra essersi divertito moltissimo invece. Ha preso migliaia di chiodi e decine di tavolacce di legno. Ha costruito un buio intestino di stanze e stanzette. Ha progettato un antro dove la luce si accende e si spegne mentre da luridi cappotti escono mani sanguinolente, fioche lampadine illuminano quadri cigolanti, e sotto mucchi di stracci si nascondono polverosi manichini che all'improvviso si animano...) eccoci all'Arsenale.
    Tutto l'Arsenale è punteggiato da barocca meraviglia. Si entra nel buio della sala di Lygia Pape, dove i fili dorati di luce sembrano i raggi degli ori senesi scesi dall'occhio di Dio, si prosegue fra gli accecanti riverberi degli specchi infranti da Pistoletto, si finisce nel chiasso del villaggio africano tra monitor e vere capanne di Pascale Marthine Tayou e si passa nello scenografico mondo di Pae White fra decine di fragili sculture, gabbiette e artificiali cinguettii per inciampare, infine, nel Giardino delle Vergini, dove ci sono la casetta di 'Hansel&Gretel' che odora di liquirizia e caramello (per forza, l'artefice Sara Ramo ha spiaccicato ovunque decine di bubble gum e Chupa chups), la palude di fango di Lara Favaretto tale e quale alle sabbie mobili dei libri di Salgari e il passeggio attrezzato di ginnici anelli che volendo si può attraversare svolazzando e battendosi il petto come Tarzan (del resto l'autore è il coreografo e ballerino William Forsythe). E meraviglia ancora per la psichedelica caffetteria di Tobias Rehberger (non a caso Leone d'oro) dove psichedelica è persino la tazzina, Illy s'intende.
    Ecco riuniti tutti i mattoncini che creano le fondamenta di questo torre di babele andata a sbriciolarsi...
    Per ricostruirla interamente si necessita di tempo e della propria chiave di lettura per ciascuna opera, che come ben sa chi ama l'arte contemporanea è sempre complicata da apprezzare a fondo. Poiché essa può essere un colpo di genio concettuale quanto una strana accozzaglia di idee post sbronza, o un'arrogante tentativo di decorare un'idea banale...(fortuna vuole che la 53esima mostra dell'arte di Venezia ci offra diversi esempi della prima definizione).
    Occhio dunque, la mostra creatrice di mondi vi aspetta!
     
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