FABRIZIO DE ANDRè

dal TERZO NUMERO dell' Alternatore

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    Dare voce alle parole di un maestro di pensieri

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    Domenica scorsa, 11 gennaio, si è celebrato un decennio dalla morte di Fabrizio De Andrè. Se n’è parlato molto la scorsa settimana, da mesi lo si diceva sui giornali, in televisione, alla radio. E quando se ne parla lo si fa con rispetto, il dovuto rispetto, perché non si vuole offendere la memoria, traviare il pensiero di chi si riconosce essere stato un grande, un vero maitre à penser. Anche domenica chi lo ha ricordato, lo ha fatto con questo intento. Ma c’è davvero riuscito?Prima di rispondere a questa domanda vorrei spendere qualche parola su di lui, o meglio, sulle sue canzoni.

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    Come (quasi) tutti ho conosciuto De Andrè attraverso la sua produzione, innamorato della sua voce così limpida, così calda, unica, affascinato dai suoi testi che,anche se bambino, percepivo essere speciali. Parole evocative di immagini, sensazioni, col tempo ricordi. Parole cariche di significato, con cui ha cantato l’amore in tutte le sue sfumature: dall’”amore sacro” all’”amor profano”, da quello “cieco” a quello “perduto” ma che sempre “viene e va” per quanto noi ci sforziamo di renderlo eterno “rifugiandoci nei sempre, nell’ipocrisia dei mai”. La guerra, fatta da uomini “con lo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore” a cui “avevano dato il consiglio di vendere cara la pelle”, il cui unico risultato è solo una “patria che si gloria di un altro eroe alla memoria” e dolore. Una guerra che,nonostante tutto, i popoli continuano imperterriti a combattere, come bambini che si divertono a “giocare” ad un gioco pericoloso, in un “girotondo” di autodistruzione. La morte, l’unica in grado di riportare eguaglianza fra i vari “prelati, notabili e conti” e gli “straccioni”, coloro che sono relegati ai margini di questa società ingiusta, gli esclusi, le puttane, i drogati,”i ladri e gli assassini”, i veri protagonisti della sua grande opera. De Andrè ha sempre raccontato le loro storie non “pensando e giudicando da buon borghese”, attraverso la cultura delle maggioranze,”alte sui naufragi dai belvedere della torri chine, distanti, sugli elementi del disastro”, pronta sempre a bollare come eresia tutto ciò che non è dogma ma percorrendo le loro”cattive strade”, fra”via del campo” e “della povertà”. Perché aveva compreso che non c’era posto per il giudizio e la colpa nella vita dell’uomo, che “se li capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”. Un mondo crudele e ipocrita, che”ci insegna la meraviglia verso la gente che ruba il pane” ma dalla cui logica si può sfuggire se”capiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame” e che, come dice in Khorakhanè, canzone dedicata ai rom, volgarmente chiamati zingari (che “rubano è vero ma io non ho mai sentito dire che rubino tramite banca”F.D.A.) “se questo vuol dire rubare, questo filo di pane tra miseria e fortuna, lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista di dio”. Già perché De Andrè credeva nella religione. Non quella di un dio che scappa di fronte alla guerra e “chissà quando ritornerà”, il cui “sole non dà i suoi raggi”nei quartieri bui perché “ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi”. Non il dio che “imbrogliò il primo uomo”in quanto”lo costrinse a sognare in un giardino incantato, a ignorare che al mondo c’è il bene e c’è il male”perché quel dio”non è Dio ma qualcuno che per noi lo ha inventato”, è il dio di chi”sa a memoria il diritto divino ma scorda sempre il perdono”. De Andrè credeva nella religione dell’umanità, una religione i cui valori fondamentali sono la pietà e il perdono, quelli del cristianesimo delle origini. Ed è Gesù,infatti, un altro protagonista delle sue canzoni, di cui”non intendeva cantare la gloria né invocare la grazia e il perdono”perché per lui”non fu altri che un uomo, come dio passato alla storia ma”-riconosceva-“inumano è pur sempre l’amore di chi rantola senza rancore perdonando con l’ultima voce chi lo uccide fra le braccia di una croce”. La religione dell’umanità simboleggiata da un Gesù che, pur essendo inumano nell’amore,”morì come tutti si muore, come tutti cambiando colore”. Ed è al suo dio che si rivolge nella canzone che chiude il suo ultimo album, Anime Salve, intitolata, appunto, Smisurata Preghiera: un’invocazione perché si ricordi di tutti i torti subiti dalle minoranze ad opera delle maggioranze, “per chi viaggia in direzione ostinata e contraria e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”.Ho provato a raccontare una piccola parte del pensiero di Fabrizio De Andrè (per quanto si possa raccontare il pensiero di un cantautore che ha scritto canzoni per mezzo secolo in un articolo di una facciata) usando le sue parole, le parole dei suoi testi. Questo mi riporta alla domanda iniziale: chi ha voluto ricordare questo grande uomo lo ha fatto con il rispetto confacente? Mi riferisco alla trasmissione”Che tempo che fa” trasmessa domenica sera, pur non volendo mettere in minimo dubbio la buona fede che animava Fazio nell’aver voluto organizzare una serata in onore di Fabrizio. De Andrè era un cantautore-intellettuale figlio di una borghesia nei cui valori non si riconosceva ma,anzi, tentava di ridicolizzare e distruggere e nello stesso tempo inserito nel sistema produttivo consumistico, che”sfruttava”le sue opere come merci per il consumo di massa, nonostante gli stili musicali e i contenuti delle sue canzoni tentassero di essere così lontani da tutto questo. Una bella contraddizione. Tale contrasto, tra il ruolo a lui assegnato di fenomeno di massa e i contenuti della sua produzione,viene risolto nella dimensione privata di chi lo ascolta grazie anche alla coerenza e limpidezza del suo messaggio, che appare come uno stupendo mosaico fatto di tante tessere: le sue canzoni. Tale coerenza e limpidezza erano date da lui e da nessun altro, per questo ritengo che volendolo celebrare nel modo più giusto si doveva raccontare Fabrizio con la sua voce, con le sue parole, non con quelle di altre persone, che potevano fare unicamente da sfondo, per non rischiare di sconfinare il limite,così sottile, tra il cantautore-maestro-di-pensiero e il cantautore-fenomeno-di-massa.

    Manfredi
     
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0 replies since 14/7/2009, 14:49   84 views
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